Il fatto.
La società datrice di lavoro aveva licenziato per giusta causa un proprio dipendente per aver costui pubblicato, sul profilo creato dalla società su una piattaforma informatica “Google My Business”, un post dal seguente contenuto “... lasciate ogni speranza... ”, al quale aveva poi assegnato un voto di una stella su cinque.
Il giudizio.
La sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento, è stata riformata in secondo grado: la Corte d'Appello ha ritenuto infatti che la potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal lavoratore, consistente in una “consapevole e volontaria denigrazione dell'azienda” realizzata utilizzando un mezzo in grado di dare alla comunicazione un'enorme diffusività, di raggiungere un numero elevatissimo di persone e di influenzarne negativamente l'orientamento, fosse idonea ad elidere il vincolo fiduciario e a rendere proporzionata l'irrogazione della massima sanzione espulsiva.
La sentenza della Cassazione.
Impugnata in Cassazione, la sentenza è stata nuovamente riformata: la Corte di Cassazione ha infatti accolto il ricorso del lavoratore e dichiarato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al dipendente.
In proposito, la Suprema Corte ha ritenuto che l'espressione utilizzata nel post e la contestuale assegnazione del punteggio da parte del lavoratore costituissero un esercizio del cosiddetto “diritto di critica” tutelato dall'art. 21 della Costituzione e dall'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché ulteriormente garantito ai lavoratori dall'art. 1 st. lav.
La manifestazione critica del pensiero, tuttavia, reca in sé un giudizio negativo e una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione. Tale bilanciamento tra il diritto di critica e il diritto, di pari rilevanza costituzionale, all'onore e alla reputazione, rende necessario un bilanciamento da attuarsi attraverso l'osservanza, da parte di colui che esercita il diritto di critica, di determinati limiti che ne rendono legittimo l'esercizio.
Tali limiti sono stati individuati da una costante e consolidata giurisprudenza (v. ex plurimis, Cass. civ., sez. lavoro, 12.2.2025 n. 3627; Cass. civ., sez. I, 20.7.2023 n. 21651; Cass. civ., sez. VI - 3, 3.12.2021 n. 38215), nella “continenza formale”, ossia nella correttezza, misura e rispetto della dignità altrui nonché nella “continenza sostanziale” ossia nella veridicità dei fatti intesa in senso non assoluto ma soggettivo (cioè fatti veri sulla base di un'incolpevole convinzione del dichiarante), ed altresì nel requisito di “pertinenza”, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione.
Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che il mezzo di comunicazione usato dal lavoratore, il sito “Google My Business” fosse finalizzato a raccogliere proprio le valutazioni sull'operato delle società da parte di qualsiasi persona e quindi clienti, fornitori, aziende o lavoratori dipendenti, come in questo caso.
Il lavoratore pertanto ha espresso un'opinione critica rispetto a quella che, nella sua convinzione, era la sua attuale situazione lavorativa (continenza sostanziale). Sotto il profilo della pertinenza, inoltre, non sono state mosse critiche afferenti alle qualità personali del datore di lavoro avulse dal contesto lavorativo e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità. Il dipendente non ha utilizzato, infine, né toni, né parole volgari o infamanti, avendo egli usato anzi una citazione tratta dalla letteratura (continenza formale).
Con la sentenza in commento, pertanto, la Corte di Cassazione, avendo riscontrato nel caso di specie la sussistenza dei presupposti di continenza formale e sostanziale nonché di pertinenza per l'esercizio del diritto di critica del lavoratore ha ritenuto il licenziamento non rispettoso di tali principi, per cui ha cassato la sentenza d'appello impugnata.